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Michele Di Salvo
14 Dec

Le patologie del nostro tempo: narcisismo e ipocrisia

Pubblicato da micheledisalvo  - Tags:  cultura, giovani, ipocrisia, Lowen, narcisismo, Società, società

Nel 1983 Alexander Lowen sosteneva “può una cultura essere “folle”? è un concetto che la psichiatria stenta ad accettare. In genere la follia è considerata la mancanza di contatto di un individuo con la realtà della sua cultura. A meno che non ci sia qualcosa di folle nella cultura”

Secondo questo criterio, se dovessimo fare una “psicanalisi” della nostra società, e della nostra cultura sociale, non potremmo che prendere atto di alcuni sintomi come “la frenesia” dei ritmi della nostra esistenza, o considerare l’assurdità insita in una cultura disposta a inquinare aria, acqua, terra, in nome di uno standard di vita più elevato.

Negli anni ottanta, una patologia come “il narcisismo” (di cui appunto parlava Lowen) da appartenere “al singolo individuo” ha infettato il modello culturale. Questo ha significato, in termini molto semplici, che se “la follia è la mancanza di contatto di un individuo con la realtà della sua cultura”, trasformando la cultura, si annulla la percezione di certi comportamenti, di certe scelte, di certi stili di vita, come “folli”. Nella introduzione al suo saggio “il narcisismo, l’identità rinnegata” Lowen definisce il narcisismo una patologia che si connota come l’estremizzazione di anteporre carriera, ricchezza materiale, frenesia produttiva, ricerca del successo professionale a tutti i costi, sacrificando su questo altare sentimenti, relazioni autentiche, accettazione del limite. Il narcisismo altro non è che un eccessivo investimento sulla propria immagine, a spese del “sé”. I narcisisti sono più preoccupati di come appaiono che non di cosa sentono, richiudendo in sé i sentimenti, le emozioni, vendendole come “punti deboli”, e considerando autentica minaccia tutto ciò che mette in discussione la propria immagine e il proprio equilibrio. La proliferazione delle cose materiali diventa la misura del progresso del vivere, l’uomo viene messo in contrapposizione con la donna, il dipendente al datore di lavoro, individuo alla comunità. Quando la ricchezza occupa una posizione più alta della saggezza, quando la notorietà è più ammirata della dignità, quando il successo è più ammirato del rispetto di sé, vuol dire che la cultura stessa sopravvaluta l’immagine e deve quindi essere ritenuta “narcisista”.

Se questa era la patologia che ha “infettato” (ed era già ben visibile) negli anni ottanta la cultura del nostro tempo, ciò ha anche fatto sì che noi oggi non la riconosciamo più come tale. Il comportamento individuale narcisistico altro non è che la perfetta coerenza (e non già la distonia) con il modello culturale, dal che paradossalmente è “anormale” l’individuo “non narcisista”. Il narcisismo dell’individuo corrisponde a quello della cultura. Noi modelliamo la cultura secondo la nostra immagine e a nostra volta siamo modellati dalla cultura.

Come osservava lo stesso Lowen “i narcisisti sono più preoccupati di come appaiono che non di cosa sentono. In realtà negano i sentimenti che contraddicono l’immagine che cercano. Agendo senza sentimenti, tendono ad essere seduttivi e manipolativi, aspirano ad ottenere il potere ed il controllo sugli altri”, e lo chiamano successo. Nonostante il loro apparente successo, molte persone si lamentano di depressione, si sentono vuote, irrealizzate, non hanno emozioni, si sentono profondamente frustrate ed irrealizzate” È esattamente ciò che avviene quando si antepone la propria immagine a ciò che si sente, e questa prende il posto del sé. In realtà, frustrazione, senso di mancanza di realizzazione, depressione, altro non sono che i sintomi del malessere del sé, dei proprio sentimenti che non riescono ad uscire, e una cultura narcisista ha come unica soluzione il drogarci di altro lavoro e di riempirci la vita di nuove “cose” – da cui lo shopping consumistico.

Figlia di questa cultura patologica, è un’altra forma di patologia, che infetta la nostra società negli anni novanta, come risposta analgesica alla solitudine, alla depressione, alla mancanza di sentimenti. L'ipocrisia è la qualità della persona che volontariamente pretende di possedere credenze, opinioni, virtù, ideali, sentimenti, emozioni che in pratica non ha. Essa si manifesta quando la persona tenta di ingannare con tali affermazioni altre persone, ed è quindi una sorta di bugia. È importante distinguere l'ipocrisia dalla semplice incapacità di una persona di acquisire o praticare le virtù da essa reputate utili, anche se la stessa, pur ritenendosi incapace di raggiungere tali obiettivi, può suggerire la via giusta agli altri. Ad esempio, una persona che abusa di alcool non può essere tacciata di ipocrisia anche se consiglia agli altri di non bere, a meno che essa non si professi costantemente sobria. All'esterno mostravano una splendida figura, covando nel loro interno il loro cupo pensiero reale (Dante Alighieri, Inferno - Canto ventitreesimo) In psicologia, il comportamento ipocrita è strettamente associato all'errore fondamentale di attribuzione, in cui l'individuo è portato a spiegare e giustificare il proprio comportamento come dovuto in gran parte a cause ambientali ed estranee, mentre attribuisce le azioni degli altri a caratteristiche innate. Alcune persone ingenuamente commettono degli errori di valutazione riguardo ai propri comportamenti caratteriali, che proiettano negli altri, auto-ingannandosi. Secondo la psicologia di Jung, tali errori sono da attribuirsi ad una scarsa conoscenza del lato oscuro del proprio subconscio. L'ipocrisia psicologica è generalmente interpretata dai teorici come un inconscio meccanismo di difesa più che un volontario inganno. Incoerenza e ipocrisia sono atteggiamenti molto simili tra loro e allo stesso tempo molto diversi; un ipocrita é colui che cerca di difendere le sue azioni con parole inadeguate e sconnesse con i fatti, l'incoerente è una persona indecisa perché afflitta da una situazione esterna (bisogna scegliere di seguire il cuore o la testa) e molto spesso fa la scelta sbagliata quindi è costretto a voltarsi indietro (metaforicamente parlando) per seguire l'altra strada anche se consapevole che all'errore commesso non si rimedia.

La nostra società, e con lei tutti noi, è ipocrita per anestetizzarci dalla percezione del vuoto che abbiamo dentro, cresciuti in una cultura dell’immagine, che in maniera violenta e innaturale ci ha importo di anteporre successo e immagine ai sentimenti ed all’espressione del sé. Qui riporto solo alcuni esempi concreti, per riportarci tutti coi piedi per terra, al di là dell’immagine che ci siamo costruiti addosso e di ciò che consideriamo valore, che consideriamo successo; forse rimettere in discussione alcune categorie del pensiero ci può aiutare a uscire dalla malattia individuandone e chiamandone per nomi i sintomi.

L’altro giorno un pensionato che non riusciva ad arrivare a fine mese è stato colto in fragrante mentre “rubava” una fetta di carne in un supermercato. Io credo che sia ipocrita il commento di una signora impellicciata che si scandalizzava per “il furto”, lei che per la propria vanità ha “rubato la vita” di qualche animale per mettersi la sua pelle addosso. Considero ipocrita considerare “ladro” chi deve compiere un atto di sopravvivenza, e non considerare “ladra” una società che gli ha rubato la dignità. Considero ipocrita una società che fonda la misura del proprio benessere su cifre individuali e non su valori collettivi.

È ipocrita l'individuo che è portato a spiegare e giustificare il proprio comportamento come dovuto in gran parte a cause ambientali ed estranee, mentre attribuisce le azioni degli altri a caratteristiche innate. E noi giustifichiamo sempre noi stessi, diamo sempre colpe agli altri, e non riconosciamo mai le nostre responsabilità, individuali e collettive. Frasi sintomatiche sono il “si ma…” o il “si ma tu” – tesi a spostare sempre l’attenzione sull’altro e ad assolvere noi stessi, se non sempre in termini assoluti, almeno in termini relativi. L’altro giorno si parlava di tassare barche, aerei ed elicotteri come misura per combattere l’evasione fiscale. È ipocrita, perché è l’ennesimo modo collettivo di cercare “il cattivo” cui attribuire le colpe individuali di tutti noi. Sappiamo bene che chi veramente ha questi beni non li ha intestati a se stesso ma a società, e quindi alla fine questa misura non porterà a nulla. Ma ci guardiamo bene dal considerare evasione il nostro individuale acquisto senza fattura, che invece consideriamo giusto, perché ci procura un risparmio.

Considero ipocrita chi prima sparla alle spalle di qualcuno e poi lo frequenta. Lo considera nel peggiore dei modi, e poi ci ride e scherza come nulla fosse. Lo si fa per immagine, per quel narcisismo individuale che ci impone “il successo” e certe frequentazioni in società indispensabili al senso di appartenenza ad un certo “bel mondo” di successo. È ipocrita perché questa “schizofrenia apparente” nasconde solo una immensa solitudine, e quindi in nome di quella immagine, in nome di quel bisogno di finta socialità, non si prende posizione, non si sceglie, non si da spazio al “sé” ed a ciò che si prova davvero.

Considero ipocrita la nostra finta uguaglianza, presupposto di qualsiasi concetto di democrazia, che dovrebbe essere parità di accesso alla vita. In realtà la nostra è solo un’eguaglianza di consumi, di accesso all’acquisto di beni. E confondiamo la possibilità di comprare, di avere tutti le stesse cose, di poterci confondere nelle apparenze, con una uguaglianza di diritti e possibilità che non abbiamo. Un consumismo egualitario che ha sedato il senso di giustizia, il bisogno di ribellarsi e l’esigenza di cambiare le cose. Un mondo ovattato, in cui abbiamo rinunciato ad indignarci per le diseguaglianze sociali in nome dell’opportunità di comprare tutti un’auto a rate.

È ipocrita la pace sociale, in una società in cui il 50% della ricchezza è in mano al 10% delle famiglie – e il nostro paese è quello in cui va anche bene, perché in altri le percentuali sono anche peggiori, e casualmente i paesi in cui va peggio sono anche quelli che consideriamo “migliori” e più “sviluppati”. È ipocrita la pace generazionale, in cui figli resi precari dalle scelte dei genitori, non hanno la forza il coraggio e non hanno mai imparato il senso della dignità per ribellarsi, “comprati” pochi euro che integrano il proprio reddito. È ipocrita il sessantottino, che combatteva il baronato ed oggi è barone, e pretende servilismo in cambio di improbabile carriera.

Persi in una cultura narcisista, in cui chi veramente è narcisista non ha altra via che recitare la parte del populista urlatore anticonformista, antidoto ambulante a che questa cultura non sani mai se stessa, nel mondo dell’apparire anestetizziamo con l’ipocrisia ed assopiamo quel po’ di sentimento autentico che ancora sa farci stare male pretendendo, sempre più saltuariamente, di venire fuori.

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T
Complimenti, tutto assolutamente condivisibile. Anche noi parliamo degli stessi temi, per quanto alla parola narcisismo preferiamo il termine egonanismo e consideriamo la frustrazione (o senso di handicap) un caso particolare della più generale apateporia.<br /> Potremmo cominciare una proficua collaborazione: http://technesya.blogspot.it/
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A
tutto molto giusto e ben scritto.
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