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Michele Di Salvo
08 Nov

Giornali e web oltre oceano - le molte lezioni da studiare

Pubblicato da Michele Di Salvo  - Tags:  giornalismo, giornali, web, internet, Oregonian, Washington Post, informazione, Newsweek, New York Times

In questi giorni tutti si sono affrettati a parlare del giornalismo americano, spesso senza sapere assolutamente nulla di quella “industria dell’informazione”, semmai ripetendo pezzi di editoriali altrui. La corsa ha avuto nuova propulsione dopo l’acquisto da parte di Bezos di una testata storica e importante come il Washington Post.
In questo articolo cerco di descrivere un po’ di cambiamenti nella storia recente di quel mondo.
Un profilo sulle maggiori testate, perché credo che da quelle vicende il nostro mondo dell’informazione abbia molto da imparare e, prima ancora, da studiare.
Nulla cambia in apparenza, ma sotto la superficie bolle una rivoluzione totale. Il giorno dopo l'annuncio a sorpresa della vendita del Washington Post, il nuovo proprietario Jeff Bezos si è premurato di confermare le cariche più importanti alla direzione del prestigioso quotidiano della capitale. Editore e direttore esecutivo rimane la giovane e rampante Katharine Weymouth, affiancata dal presidente Stephen Hills e i direttori editoriali Fred Hiatt e Martin Baron. «Questo è un gran giorno per una delle più grandi istituzioni del giornalismo» ha brindato Carl Bernstein, uno dei due giornalisti dello scandalo Watergate che detronizzò Nixon dalla Casa Bianca. «Stabilità e continuità» ha promesso Bezos.
Gli abbonamenti digitali spingono in nero i conti del New York Times, nonostante il calo inesorabile degli introiti pubblicitari. Nel secondo trimestre del 2013, il giornale newyorkese ha registrato un utile netto di 20,1 milioni di dollari – pari a 13 centesimi per azione – contro la perdita di 87,6 milioni di dollari – meno 58 centesimi per azione – nello stesso periodo dello scorso anno. Il fatturato invece è calato dello 0,9% a 485,4 milioni di dollari. Complessivamente i ricavi generati dalla diffusione del giornale sono cresciuti dello 5,1%, ma il guadagno è stato in larga parte compensato dal calo delle entrate pubblicitarie, che hanno registrato un meno 5,8% (6,8% per quanto riguarda la carta stampata e 2,7% per il digitale). A spingere in attivo i conti sono invece gli abbonamenti online: nel secondo trimestre 2013 sono cresciuti del 40%, pari a 738 mila unità (699 mila unità per Nyt e International Herald Tribune e 39 mila per Boston Globe). “Stiamo facendo progressi e le nostre iniziative strategiche di crescita sono sulla buona strada”, ha detto l’amministratore delegato Mark Thompson, precisando che “i risultati riflettono la continua evoluzione delle iniziative digitali, l’attenzione alla gestione dei costi e il moderato calo delle entrate pubblicitarie”. Il New York Times continua ad evolversi cercando nuovi modi per far soldi. Ora sta lavorando a nuovi prodotti digitali: prevede di lanciare una offerta per abbonamenti online a basso prezzo che si chiamerà “need to know”, bisogno di sapere, e punterà sul settore alimentare con più attenzione alle notizie sul cibo.

A puntare sul digitale è anche il magnate Rupert Murdoch. Da oggi infatti la versione online del The Sun è a pagamento: si chiama ‘Sun+’ e costa due sterline a settimana. Murdoch aveva annunciato la decisione lo scorso marzo, spiegando che i costi della versione gratuita non potevano più essere sostenuti.

Diverse le sorti del Newsweek, di cui fallisce anche il piano di settimanale esclusivamente digitale Il sito “Daily Beast” cede il magazine alla sconosciuta IBT Media
Era nato nel pieno della Grande Depressione, mentre l’America reagiva alla crisi pensando in grande e innalzando grattacieli come l’Empire State o il Chrysler di New York. È praticamente morto 80 anni dopo, per non aver capito come occorra reinventarsi nel XXI secolo, in tempi di nuova recessione globale. L’avventura di «Newsweek», una delle testate giornalistiche più famose al mondo, è ricca di sorprese e lezioni. Quello che ancora dieci anni fa era un settimanale da 4 milioni di copie venduto il tutto il mondo, ha cessato di esistere su carta il 31 dicembre scorso, diventando parte del sito web The Daily Beast. Ma neppure questa cura drammatica, arrivata dopo anni di errori finanziari e giornalistici, è bastata a rilanciare «Newsweek». Ciò che resta del magazine fondato nel 1933 e della sua redazione è stato venduto a IBT Media, una società che ha come pubblicazione di punta la testata «International Business Times». L’importo dell’operazione non è stato reso noto, così come è incerto il destino che attende il marchio «Newsweek». IBT Media non sembra esattamente un incubatore di grande giornalismo. Dietro la società si vocifera che si nasconda il predicatore asiatico David Jang, un controverso leader evangelico che parla di sé come la reincarnazione di Gesù. 

Le spoglie di «Newsweek» finirebbero così per trovarsi in una situazione analoga a quelle della gloriosa agenzia di stampa United Press International (Upi), fondata nel 1907 dall’editore E.W.Scripps e ora semi-scomparsa nell’irrilevanza, dopo essere stata acquistata dalla Chiesa dell’Unificazione del reverendo coreano Sun Myung Moon (quello delle nozze del vescovo Milingo). Dal 2009, il declino di «Newsweek» è stato inarrestabile. Il settimanale, che aveva un attivo di 30 milioni di dollari nel 2007, due anni dopo era passato a un passivo della stessa entità. E non si è più ripreso. Colpa, tra le tante cose, di scelte editoriali discutibili, di un incomprensibile mix tra reportage seri e articoli di una leggerezza sconcertante, di tentativi di raccontare la politica in una chiave pop che ha fatto inarcare le sopracciglia ai lettori abituali. Non che il genere sia errato in sé. Semplicemente il pubblico di «Newsweek» si aspettava qualcosa di diverso e, non trovandolo più, è migrato altrove. L’era di Obama è stata fatale a «Newsweek»: non ha trovato la voce giusta per raccontare un presidente completamente nuovo, mentre aveva descritto (e attaccato) molto bene il predecessore. Né è servita la fusione con The Daily Beast e il tentativo della direttrice Tina Brown di inventare un nuovo «Newsweek» per l’era digitale. Barry Diller, il mogul dei media che con Sidney Harman aveva rilevato la testata per un dollaro (simbolico) dal «Washington Post», già da aprile andava ripetendo che acquisire «Newsweek» era stato un errore. Sopprimere l’edizione di carta - che per ora curiosamente resiste in Europa, nella versione «International» - non è bastato e alla prima occasione Diller si è liberato della testata.

Le lezioni che «Newsweek» non ha capito sono quelle che invece negli Usa sembra aver compreso bene «The Atlantic», un altro magazine storico (ha 150 anni) che sta diventando un modello da studiare per tutto il settore. La regola di fondo è che il problema non è scegliere tra carta o digitale, ma imparare a realizzare su ogni piattaforma il tipo di giornalismo che i lettori si aspettano di trovare collegato a quel particolare «brand». «The Atlantic» oggi è tantissime cose e prospera raccogliendo una miriade di piccoli ricavi che, al momento di tirare le somme, diventano un profitto. Facile a dirsi, ma tutt’altro che semplice. Il nuovo ecosistema dell’editoria digitale ha regole di selezione naturale che avrebbero incuriosito anche Darwin. Non dominano i carnivori che si nutrono solo di entrate pubblicitarie, né gli erbivori che vivono di abbonamenti. È una catena alimentare che privilegia gli onnivori, capaci di mangiare poco di tutto. E anche di scoprire cibi nuovi.


Quelli che seguono sono due articoli apparentemente scollegati tra loro.
Il primo è un semplice annuncio di lavoro. Si tratta del Washington Post. Cercava (era febbraio 2012!) “giornalisti capaci di bloggare”.
Un semplice annuncio che però segna la distanza enorme tra i nostri media e i grandi gruppi editoriali che competono a livello globale: mentre da noi si pensa che un giornalista sia anche di per sé capace di riempire contenuti web, da anni altrove hanno compreso che i due ruoli non sono intercambiabili “a piacere”, ma ciascuno ha una sua ben precisa identità, specificità e professionalità, che comporta anche regole di scrittura differenti.

In maniera invece più approfondita vi propongo, in inglese, un articolo di alcuni giorni fa di Susan Sivek – docente di Comunicazione di Massa e Multimediale al Linfield College, in Oregon.
Questo articolo, scritto per i suoi studenti, si riferisce al processo di “ristrutturazione editoriale” del settimanale “The Oregonian”.
Se consideriamo che non stiamo parlando di un magazine continentale ma statale, leggere una certa qualità dell’approccio e le soluzioni individuate per un media tradizionale ai tempi della rete marca ancora di più quel divario cui accennavo prima.

The Oregonian recently announced major changes to its structure and publication process. Soon after this announcement, an article titled "The Oregonian Navigates the Great Depression" popped up in one of my Google Scholar alerts. The timing was remarkable, and I thought it would be interesting to see if any insights in the article might be relevant to the newspaper's struggles today. The article appears in the Oregon Historical Quarterly's summer 2013 issue, and is by Harry H. Stein, an independent researcher and former professor. Stein traces how The Oregonian, "like some stately but rusting liner breached by the elements, strained to repair itself while altering course to a safe port" during the Depression (p. 174). As consultant Guy T. Viskniskki told Oregonian executives, "Here is a crisis. The Oregonian must stop being a Model T newspaper in a V-8 age" (p. 185). Stein highlights the major strategies and changes that he believes sustained the newspaper as it contended with both challenging economic circumstances and growing competition from radio:

1. Use of its affiliated radio stations, especially KGW, to repurpose the newspaper's content and promote the newspaper, believing that radio newscasts "whetted interest for [the] daily's more comprehensive accounts" (p. 183);

2. A generational shift that freed younger staffers from their older superiors' (perceived or real) dislike for innovation;

3. Improvements in the paper's look and feel, including increased use of photos, multi-column stories and headlines, an upbeat tone in some local stories, contests, and eventually color printing in 1937;

4. Greater influence of marketing research on newspaper content, probably increasing the use of fiction; content for teenagers, women and rural residents; home and garden stories; and "picture pages"; and

5. Changes in news style, including greater objectivity and accuracy in newswriting that moved beyond the newspaper's historically Republican partisanship, and also more prominent use of interpretation and explanatory journalism.

With these changes, Stein writes, "The Oregonian became fairly nimble and adaptive during the 1930s. The paper also achieved its largest circulation to date" (p. 197). He argues that the newspaper was then well positioned to compete with weekly newsmagazines, like Time and Life, and radio newscasts. Finally, the public's demand for news during World War II helped the newspaper capitalize on these changes.
[A final tidbit from Stein's research: "In 1930 and 1931, at least five Oregon newspapers paid employees in scrip redeemable only at firms that traded it for advertising space" (p. 183). I hope this doesn't give today's newspaper executives any ideas.]
What I find remarkable about the key points listed above is how similar they are to changes made in recent years at many newspapers:

1. Partnerships between broadcasters and newspapers burgeoned for a while, though that territory is shifting constantly. Today's big dilemma is the relationship of the web/mobile to the print newspaper product.

2. A generational shift is also occurring today, if not always voluntarily, due to retirements and layoffs.

3. Today's print product looks largely the same as it has for the last decade or so, and the challenge is improving the online and mobile interfaces (alas, I'm pretty sure thisis not the answer).

4. The Oregonian's planned changes sound largely informed by marketing research, as in the Saturday edition's planned "strong emphasis on sports content," and the statement "we will enhance our suite of products to help our advertisers reach their best customers."

Yet little evidence of a turn to point #5 above -- greater use of interpretative and explanatory journalism -- is visible in The Oregonian's planned changes in 2013. The reference to "more up-to-the-minute, robust news and information online and on mobile devices while continuing the strong enterprise and investigative reporting" feels more invested in the former, not the latter.
Like others, I have always felt like producing more in-depth, analytical coverage would be a good direction for newspapers today -- as it apparently was for The Oregonian in the Depression era -- in order to provide perspective and context for the plethora of breaking news reports available online. Online reports can "whet interest" for the newspaper's sense-making coverage, as radio did in the 1930s.
As the 2013 State of the News Media essay on newspapers concludes,
...the industry has yet to break the decade-long cycle of doing less and less of what it does best. But while fully evolved digital information do-it-yourselfers see newspapers as passé and irrelevant, there is still substantial demand for original reporting and synthesizing the flood of available content. Doing that well on multiple platforms now seems in reach, making the rise of all things digital plausibly an opportunity, not just a threat.
Loyal readers will have to wait to see whether this opportunity is fulfilled by The Oregonian's upcoming changes. Stein notes that readers complained about many of The Oregonian's Depression-era decisions, but that their dissatisfaction was ignored, as was "minimal and ineffective" internal dissent among the staff (p. 186). The changes were apparently viewed as so essential to the newspaper's sustainability that its leaders forged on despite disagreement. Stein's research suggests that the newspaper's leaders were right then; readers can hope that today's leaders will also succeed, in circumstances that are even more transformative than those faced during the Depression.

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